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Degustazione alla cieca da Stefano Legnani

di Matteo Sara 16 Gennaio 2019

Indimenticabile verticale alla presenza della “meglio gioventù” della ristorazione ligure

 

  • Degustazione
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Immaginate di bere Champagne. Una di quelle bottiglie Brut sans annèe di una grande Maison diffusa in tutto il mondo. Uno di quei prodotti che si trovano su scaffali di ristoranti, bar, supermercati e gates aeroportuali, magari pure di classe, indiscussa, che sono ogni anno uguali, pronti a confortare il consumatore più ansioso e privo di slancio. Ecco, ora immaginate l’esatto opposto. Al posto della presentazione glamour piena di hostess, tipica dei prodotti blasonati di cui sopra, immaginate un tavolo nel salotto (comunque molto bello, intendiamoci) della casa del produttore. E a questo tavolo lui, sua moglie (che poi non fa solo “la moglie”, oltre a fare da “namer” un po’ di zampino lo mette anche lei) e una pletora di amanti del vino come Sergio Azaghi, Davide Cannavino, Matteo Circella, per tacer degli assenti che non hanno potuto partecipare, come dire la meglio gioventù della ristorazione ligure; in più, fortunatamente per me, anche un paio di collaboratori di Liguria Wine Magazine, Roberto Lauriana ed io.

Siamo da Stefano Legnani (Località La Bradia, Sarzana) e l’occasione è “la più grande degustazione verticale mai tenutasi in tutto il mondo” (in Giappone pare ne stiano conservando alcuni stock, forse vorranno imitarci…) del Bamboo Road, vino bianco da tavola dell’estremo levante ligure. Le annate, tutte quelle prodotte, sono la 2015-2016-2017, più un campione di vasca del 2018, ancora lontano dalla sua forma definitiva non avendo ricevuto il contributo del vermentino al blend di malvasia di candia e trebbiano (l’albana è stato presente solo fino al 2017, questioni di disponibilità e anzianità del vigneto). Degustazione rigorosamente alla cieca, bottiglie coperte in modo da non interpretare secondo le aspettative, vini serviti tutti contemporaneamente per facilitare i confronti, tutti a temperatura ambiente.

Si parte. L’impressione è quella di una corsa di cavalli, in cui lo spettatore assiste ad un inseguimento tra vini che scattano felicemente ed altri che si impuntano, restano al palo scontrosi fino a quando non lo decidono loro, svelando solo più tardi il loro carattere; la differenza, sostanziale rispetto all’ippica, è che qui non esiste un vincitore oggettivo, solo diversi approcci, al palato e all’abbinamento col cibo, unico e vero traguardo, cui tutti i campioni arrivano con personalità. Certo, si capisce che un Bamboo Road in una ristorazione veloce e un po’ disattenta avrebbe poche chances di sedurre, ci vuole qualcuno che spieghi e diffonda, del tempo insomma, ma Stefano mica li sceglie a caso i suoi ospiti, i suoi cavalli hanno spesso buoni fantini. Il 2015, non molto limpido (ma il mio è l’ultimo bicchiere della bottiglia), è giallo dorato come l’elicriso che ricorda al naso, su una base di frutta a polpa bianca ed agrume appena candito, lascia condurre un profumo erbaceo di aromatiche, salvia in primis; in bocca c’è struttura, corpo, anche morbidezza, latita appena l’acidità, ma la ricchezza sapida porta in fondo il sorso. Il gruppo, sempre unanime nell’attribuire le annate, lo becca senza difficoltà.

Il 2017 arriva nel calice appena tinto di un pallore alabastrino, si, c’è del giallo, probabilmente dei riflessi paglierini, ma è un colore come dimenticato, spento. Ci vuole l’ossigeno, lo stiamo perdendo, lo stiamo perdendo. E invece basta quello dell’aria, nel giro di qualche minuto la risposta è l’arrivo di materiale cromatico sufficiente a barrare la casella “giallo paglierino con evidenti riflessi dorati”. Al naso è reticente, pare Tornasol al Palio di Siena del 17, non ne vuole sapere, per un quarto d’ora almeno punta i piedi e trasmette pochissimo, attende che parta anche il quarto campione, si lascia distanziare da tutti e, con estrema calma, quando vuole lui, inizia a sviluppare un profumo di discreta intensità ed un finissimo agrumato, piacevole introduzione al sapore che più di tutti gli altri conserva la freschezza. Qui è questione di gusti, c’è chi ama e cerca le morbidezze e chi, come me, pensa già quali grassezze un vino così potrà accompagnare nel palato, il crostino burro e acciughe qui è perfetto. Anche qui il gruppo azzecca l’attribuzione senza difficoltà.

Ora iniziano le dolenti note. Il terzo vino si rivela essere il parziale campione di vasca del 2018, solo trebbiano e malvasia. Tutti lo immaginano del 2016. Amen. Il dorato appare subito, e altrettanto rapidamente si stagliano delle note di frutta gialla in sciroppo, pesca secondo alcuni, albicocca per altri, probabilmente tutte e due e finiamola lì, comunque un profumo dolcissimo (“sweeter than the sugar cane” per dirla con la title track di Willy Deville), che smuove ricordi di infanzia, e di furti dalla dispensa. La bocca mantiene le promesse a livello aromatico ma, fortunatamente, non indulge in melensaggini, il vino è sapido, bello fresco, anche appena tannico, irresistibile, e con un finale quasi salato di notevole lunghezza. Allo svelamento delle bottiglie scatta immediato un dibattito sulla possibilità di conservare questo stato embrionale in modo così emozionante in bottiglia, probabilmente solo utopia, si vedrà. Chissà quante cose del genere aveva assaggiato Mario Soldati nei suoi viaggi: “vino di vigna del posto, pigiato sul posto, conservato sul posto, bevuto sul posto”.

Il 2016, in magnum, si sa già che è stato preso per il 2018. Capita. La riduzione iniziale c’è, non così cocciuta come per il 2017, ma a tutti pare in una fase embrionale (sarà poi attribuita al largo formato, più adatto, si sa, ai lunghi invecchiamenti), vista la freschezza indiscutibile sia al naso che in bocca; rispetto al filo conduttore che lo lega al resto della batteria fa uscire, alla lunga, anche una sottile nota fumè, come di legno, di brace. Davvero interessante, tassello finale di un puzzle che si immagina possa crescere ancora, per le evidenti sfaccettature caratteriali del Bamboo Road e la sua serbevolezza.

Grazie Stefano, grazie Monica, e grazie anche a Gino, il gatto cui è dedicato un rosso da malvasia nera (piemontese, non pugliese), il PerGino 2013, che integra perfettamente lo zucchero residuo in un finale pulitissimo grazie a tannino e sapidità. Gran bella conclusione. Gino ci ha lasciati, il “suo” vino no.

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Matteo Sara

Astemio per i primi 36 anni di vita. Bevendo acqua e succhi di frutta si lancia in proclami del tipo: “se iniziassi a bere vorrei diventare sommelier”. Un autunno, sulla via di Canelli, viene finalmente folgorato da Bacco, e decide di iniziarsi all’alcol. Trentotto mesi dopo il primo bicchiere, diventa effettivamente sommelier Ais. Prima tappa di uno studio matto e speranzosissimo con l’obiettivo di recuperare il tempo perduto, tutto. Proust is nothing.

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