Confermata la regola che anche il Pigato può dare vini longevi. Ottimamente conservati
Vi odio. Vi odio tutti.
Voi tutti perversi consumatori che bevete i bianchi liguri troppo giovani. Gregge capitanato da ristoratori smidollati, che aprite bottiglie in stato embrionale, che ammirate ecografie prendendole per foto del pargolo, voi che commettete infanticidi enofili con improvvida leggerezza, voi che se poteste ordinereste oggi i vini del 2020 come fosse l’aggiornamento all’antivirus, Monty Brogan vi ha soltanto dimenticato, ma dovreste essere citati anche voi nella Venticinquesima ora, si, voi che Dante nel Canto Sesto del Purgatorio non vi ha inserito nell’Invettiva solo perché è morto prima che voi nasceste, e comunque vi avrebbe piazzato nel Trentaduesimo dell’Inferno, fate voi se tra i traditori dei parenti o della patria. Passi che grazie alla vostra ebefilia liquida si riversi sugli eroici produttori liguri un goccio di liquidità, necessaria al sostentamento di aziende mediamente minute, che il vostro paesaggio lo tutelano lavorando in vigna ed hanno meno spazio delle vostre case per tenere uno storico di cantina come si deve, e non tirate fuori le questioni finanziarie, se invece di cambiare smartphone ogni semestre compraste una cantina frigo ogni lustro spendereste meno e dareste il lustro del tempo ad un centinaio di bocce in attesa dei loro tempi migliori. Pavidi.

Un grappolo di uva Pigato
Son partito un po’ forte? Non io. Così ha parlato l’Oracolo di Porto Maurizio: ho stappato un Regis di Vis Amoris, annata 2009. Che il Pigato possa dare vini longevi non è più un segreto, probabilmente anche più del Vermentino, suo alter ego regionale; aggiungiamo la regola size matters, dato che l’esemplare stappato era in versione magnum, formato notoriamente più adatto all’affinamento prolungato in vetro; mettiamoci anche che l’uscita dalla cantina è stata recente, per l’ultimo mercato FIVI del 2019 dove è avvenuto l’acquisto (quanto mi mancano le fiere…), cui è seguita conservazione in ambiente opportuno fino al momento fatidico. Mettiamoci quello che volete, fatto sta che questo assaggio rende completa giustizia all’attesa, al lavoro e alla forza dell’amore dei produttori.
Già dal colore costringe ad una prima uscita dai parametri analitici più ovvi, è chiaramente un oro verde, la conservazione dei riflessi verdolini pur immersi nella veste dorata lascia ben sperare nell’ottimo stato di conservazione, così come la lucentezza, senza un cedimento.
Il bouquet olfattivo permette di scomodare, in eventuale compilazione di scheda di assaggio AIS, il termine ultimo della complessità, cioè “ampio”. Inevitabile allorché una cinquina di degustatori intorno ad un tavolo (larghissimo, a norma di legge anticovid) riesce a trascorrere una decina di minuti rimbalzandosi suggerimenti e suggestioni. Parte con una netta impronta iodata, di pietra silicea, a dar prevalenza al territorio sulle note di frutta secca e di speziatura dolce, derivanti da un legno finalmente perfettamente integrato, arrivano infatti l’arachide, il pistacchio, la curcuma, e un finale di crema di mandorle non sgusciate; tutto questo non fa recedere sia la componente fruttata (che scodella la signorilità dei fichi e l’esuberanza del ribes, con ancora un cenno di agrumi, magari canditi, ma integri) che quella erbacea, guidata dalle erbe aromatiche (aridaje col territorio…), maggiorana, felce, fiori di zagara e castagno, per poi virare sul the bianco e lasciare spazio, ancora, ad un cenno minerale sulfureo per una “chiusa che sa di sale”, citazione che rubo ad uno dei miei compagni. Probabilmente avvicinare il naso a questo calice è stato uno dei motivi migliori immaginabili per togliersi un attimo la tanto vituperata mascherina obbligatoria.

La bottiglia di Regis di Vis Amoris
Dopo tanta profusione aromatica, dalla bocca ci si può aspettare solo un grandissimo equilibrio. Fiat volumptas Regis: il tasso alcolico misurato (è un 12,5%, di questi tempi una meraviglia) dà appena il suo contributo d’ordinanza alle morbidezze, eppure il vino ha sufficiente rotondità per reggere l’indomata freschezza e soprattutto un’imponente sapidità. Il batonnage semestrale in tonneau francese, avvenuto un decennio fa, potrebbe anche aver coperto l’espressione del vino nella fase iniziale della sua vita, lo posso anche ammettere, in fondo il Pigato mica è “quel” vitigno, tipico di “quella zona là” nella Francia orientale, che non voglio neppure nominare per non finire in uno scontato paragone ogniqualvolta si mette un bianco in botte, eppure qui la magica combo vitigno/territorio, nella tenzone col tempo, ha retto meravigliosamente. Prova ne sia non solo il punteggio unanimemente entusiasmante attribuito dalla conventicola di degustatori presenti ma, in specie, la disarmante persistenza, misurabile non in minuti secondi ma in brani dei Tool o di Coltrane (ognuno scelga il suo genere preferito), anche per relativa autorevolezza, si intende.
Penso, ma un po’ era premeditato, che una normale scheda della nostra Cantina LWM non mi sarebbe stata sufficiente per raccontarlo, e allora ecco un testo un filino più libero, con la promessa che sul rapporto tra il tempo e i prodotti enologici liguri non sarà l’ultimo. Ripenso poi agli amanti dei vini prepuberi di cui in apertura, e chiudo con un’inevitabile citazione di un altro sommo poeta, questa volta Freak Antòni, che nella musicassetta d’esordio degli Skiantos, praticamente improvvisata in una notte di settembre del 1977, rese immortali i seguenti versi:
“E se vi guardo con ribrezzo
è perché io vi disprezzo,
io vi odio, come godo.”