Una nuova cantina e nuovi vigneti per valorizzare un’intera Valle. Quella del Vara
Cominciamo dal futuro.
Quello dell’azienda agricola I Cerri, a Carro, in Val di Vara, è certamente roseo. Lo dice il recente passato. Intanto per la nuova e più grande cantina, spostata dal centro del borgo al posto dove un tempo c’era un grosso edificio dimesso, corposa ristrutturazione insomma, roba che i vicini devono ringraziare per il decoro, ed infatti, oltre ad una pletora di esperti da tutta la regione, all’inaugurazione dello scorso giugno c’era mezzo paese. Poi ci sono i nuovi vigneti, impianti di un paio di anni fa, che a breve entreranno in produzione ad irrobustire la dotazione dei vitigni già lavorati. Una faccenda tipicamente ligure, quella di dover strappare gli appezzamenti di terreno all’abbandono, all’eccessivo frazionamento, alla foresta (non si può parlare di bosco quando per entrare ci vuole il decespugliatore), alla fatica e all’assenza di prospettive.
A dire che il futuro è roseo c’è anche il passato più lontano. Qui, un tempo, era tutto vitato. Tolti gli affioramenti di roccia che nel territorio ligure punteggiano colline e montagne, ogni terreno favorevole era un serbatoio per le botti di un comprensorio ben più ampio di quello strettamente comunale. Magari il vino veniva come veniva, ma si sa, erano altri tempi, i terreni buoni per la viticoltura erano tutti puntigliosamente utilizzati. L’operazione in atto è quindi un recupero di una tradizione antica con tutte le conoscenze, ed attenzioni all’ambiente, contemporanee.
Il futuro roseo dipende anche dal clima. Si può anche non credere nel global warming, ma non se si è viticoltori. Una soluzione per mantenere la finezza la si trova in molti modi, ma ai 400 metri slm di Carro si parte da un’altitudine adeguata, l’influenza marina in qualche modo arriva, il beneficio di escursioni termiche tra giorno e notte è innegabile. Al momento I Cerri è l’unica azienda operativa nel comune, poi chi lo sa, nel frattempo gli ampi margini di crescita sono tutti a loro favore.
Il futuro roseo, in ultima analisi, dipende dal proprietario, Gianluigi Careddu. La sua verve, la sua visione progettuale, le sue capacità e volontà di investire in un territorio e in prodotti che valgano di per sé, al di là della celebrità di una denominazione, sono aspetti che arrivano immediatamente, dopo pochi istanti, al primo incontro. Il vino di Carro crescerà, grazie a lui.
Continuiamo con il presente. Dei tre vini prodotti fino ad ora descriverò prima l’impatto olfattivo, per poi procedere oltre. Il Cian dei Seri 2017 ha una base di Vermentino all’80%, il resto diviso tra Albarola e Sauvignon Blanc. È intenso al naso, con un erbaceo finissimo ed un fruttato di mela, anzi, di mele, dato che in sequenza se ne colgono diverse, da quelle più verdi alle più dolciastre. Il Campo Grande 2017 è Albarola sostanzialmente in purezza, il piccolo saldo di Petit Manseng, uva del sud ovest francese, sarà al massimo un cinque per cento. Al naso è interessante e complesso, con note agrumate e di idrocarburi che la fanno da padrone, poi frutta di polpa bianca, succosa; sarebbe da piazzare alla cieca con qualche renana di un paio d’anni, per vedere che effetto fa.
Il Fonte dietro il Sole 2017 ha un 50% di Merlot, un 40% di Syrah e il 10% di Ciliegiolo. Il fruttato esuberante di ciliegia matura non nasconde una tenzone tra l’erbaceo della varietà bordolese e la lieve speziatura di quella del Rodano, con la prima che attualmente la spunta di gran lunga ma che col tempo potrebbe cedere al pepe nero aumentando la complessità.

Gianluigi Careddu nel terreno dove sorgerà il suo prossimo vigneto
In bocca emerge con chiarezza una voce comune, in tutti e tre i prodotti. Una voce che sa di territorio più che stile di vinificazione. Si potrebbe sintetizzare con l’intreccio tra freschezza e sapidità, declinato ora sui retrogusti fruttati, ora sulle tensioni minerali, ma che in tutti i casi produce un finale sorprendentemente lungo, coerente, foriero di stimolanti evoluzioni future. Non è frequente trovare certe persistenze a questo livello di ambizioni (e di prezzo).
Ancora una volta è la dimensione temporale che mi colpisce. Vini da conservare, ma anche da bere subito; vini nuovi da terre antiche, in parte dimenticate, vini che cresceranno in quantità, probabilmente non solo in quella. Scendo da Carro pensando sia alla durata in Bergson che ai giratempo di Harry Potter, immagino bottiglie “coscienza” e anche un po’ “flusso canalizzatore”. Progetto, guidando, che l’area semantica del divenire possa essere la principale cui attingerò nel testo.
Chiudo quindi, ancora, con il futuro.
Gianluigi, con la figlia maggiore Chiara, mi accompagna anche in un appezzamento di terreno dove sorgerà il suo prossimo vigneto. Poco sotto la frazione Castello, dai 450 ai 480 metri, esposizione pieno sud. Lo guardo aggirarsi tra gli sterpi, i rovi, le erbacce, che pure erano state già tagliate, e non da molto. Ci verrà della Granaccia, uva nera che mi sembra sempre ancora troppo poca in Liguria. E mi viene in mente un passato, di un altro luogo, di un’altra persona. Immagino Marlene Soria nella Languedoc che i vigneti di Peyre Rose se li è ricavati a fatica tra pietre ed arbusti. Auguro a Gianluigi metà della di lei fortuna. Come è che era il nome del suo vino più celebre? Léone.