Il resoconto di una “disputa” degustativa Italia-Francia. Senza vincitori né vinti

Alcune bottiglie degustate
No, non è un errore di stampa. C’è scritto proprio “rolle” con doppia elle. E non è un esercitazione, è roba seria. È la cronaca di quello che potrebbe essere un momento storico per le relazioni bilaterali tra due importanti paesi europei. Potrebbe essere la fine del secolare conflitto tra Italia e Francia: il perdono per il nostro attacco di ottant’anni fa, per il golden goal di Trezeguet e per il rigore decisivo di Grosso, per le prese per il culo di Charlie Hebdo, per come i romani hanno trattato Asterix e anche un po’ per Clemente V e tutta la cattività Avignonese.
Che è successo? Ho organizzato una stappata.
L’idea è un confronto tra alcuni vermentini prodotti in Francia, ovviamente nelle sue regioni sud-orientali, quelle dell’areale di diffusione del vitigno, con altri prodotti nella Doc Colli di Luni. Orbene, nonostante il parere pressante e puntiglioso dei patrioti più partigiani, ci sono un paio di cosine che dobbiamo ammettere di poter effettivamente imparare da oltralpe: l’attenzione e la passione per le vecchie annate, anche nei vini bianchi (e io su questo insisto…), e il sapiente uso del legno in affinamento (oh, mica ovunque, mica sempre, però in media hanno una certa classe, non si può negare). Allora, per la serata, ho pensato di unire alle bottiglie prese nella mia ultima puntata francese pre Covid19 tra Nizza e Montpellier (niente Corsica, altrimenti mi sarebbe saltato il sottile giuoco di parole del titolo dato che ivi non lo chiamano Rolle), dei vermentini lunensi con diversi approcci ma aventi in comune l’affinamento in legno, per misurarne l’integrità rispetto al contenitore e la loro tenuta nel tempo. Ovvero: avranno sufficiente struttura, adeguato carattere, insomma, avranno il fisico?
Ho chiesto un contributo ai cinque produttori che mi risultano dediti a questa pratica (in caso di dimenticanza mi scuso, faccio il mea grandissima culpa, e mi offro di espiare come vendemmiatore aracnofobo) ottenendo una magnifica risposta: tutti hanno generosamente offerto almeno un campione attingendo ai loro liguri, quindi di dimensioni minute, archivi storici. Ecco il resoconto di questa degustazione tra Via Aurelia e Via Julia Augusta, avvenuta non esattamente nell’ordine di anzianità qui sotto riportato ed effettuata rigorosamente alla cieca, tranne per me, addetto alla mescita. Ove non indicato diversamente si intendono tutti Colli di Luni Vermentino DOC:
– Cà Lunae, Cavagino 2019. Il legno qui è utilizzato solo per la fermentazione di un 40% della massa, poi si assembla in acciaio. Sentori di frutta a polpa gialla accattivanti (a mia moglie piacerà un sacco, ne sono certo) sono completati da erbe aromatiche su cui spicca il rosmarino; è solo all’inizio del suo percorso, probabilmente con ulteriore affinamento in bottiglia potrà lasciare maggior spazio ai già percepibili ritorni sapidi del finale.
– Chateau Rasque, Blanc de Blanc 2018, AOC Côtes de Provence. Domaine nelle colline dell’entroterra di Fréjus. Qui niente legno, e i degustatori lo colgono. Naso di frutta a polpa bianca, erbe aromatiche e tanto floreale, dal sambuco al castagno. Ha buona freschezza ed è piacevole da bere, pecca forse un po’ nella sapidità, che avrebbe senz’altro aumentato la non lunghissima persistenza.
– Giacomelli, Il Giardino dei Vescovi 2018. L’impressione generale è che sia un vino che abbia ancora bisogno di tempo per esprimersi al meglio, con grandi potenzialità. È infatti già piuttosto complesso al naso, con la mela golden, l’agrume candito, il finocchietto e un delicato rosmarino. Note dolci confermate da una bocca morbida, ma che tiene botta con la sapidità.
– Giacomelli, Il Giardino dei Vescovi 2017. Si potrebbe intendere come la conferma delle valutazioni del suo fratello minore. È un vino in grande forma, un legno perfettamente integrato lo rende in grande equilibrio, mela e salvia si tuffano negli sbuffi iodati, poi un filo di ginepro, un cenno di idrocarburo. Ha calore e rotondità, ma in plural tenzone con il salino, che vince nel finale.
– Cà Lunae, Numero Chiuso 2016. Profumi sottili, molto fini, di frutta e di fiori, un bouquet che col tempo andrà a farsi anche più complesso. La bocca, invece, è perfetta già ora: è rotonda, elegante, con una bella sapidità a far da contraltare e un piccolo cenno che a definirlo tannico si uscirebbe dai manuali, però ha un bel grip invitante.
–Chateau Bellet, Baron G 2016, AOC Bellet. Siamo sulle alture di Nizza, come se a Genova facessero vino al Forte Sperone, anzi, alla Madonna della Guardia, visto che lo Chateau ha la sua Eglise dominante sulle colline, e sulla cantina. Qui il legno si fa sentire, probabilmente anche quel 10% di chardonnay, ma tutto in modo decisamente elegante. La prima sensazione, almeno in ordine cronologico, è un idrocarburo, poi la frutta, più gialla che bianca, camomilla (soprattutto nella retronasale), un po’ di erbaceo appena appassito, e poi una bella vaniglia che, qui, non guasta. Bocca sontuosa e saporita, la salinità regge nel palato, e alla fine resta lei, bella contenta.
–La Pietra del Focolare, L’Aura di Sarticola 2016. È il vino più importante ed elaborato dell’azienda, nasce da macerazione sulle bucce e dall’unione di un 10% dell’annata successiva. Fino ad ora ho parlato poco dei colori, ma qui il giallo dorato è davvero invitante, e va citato. Naso con la mela cotta al forno, un po’ di crosta di pane, di nocciola, e una nota di liquirizia, specie nel finale. Al palato è morbido, importante, ma non mancano la freschezza e la sapidità per mantenerlo piacevole.
–Il Monticello, Poggio Paterno 2016. Provo a riferire tutti i descrittori usciti dalla tavolata, ma non sarà facile. Macchia mediterranea, thè, pesca nettarina, thè alla pesca (questa era facile, bastava sommare le due precedenti), balsamico, mentuccia, corbezzolo, elicriso, cenno di liquirizia, fieno. Complessità ne abbiamo? Bocca ancora graffiante, bella beva dalla più classica sinergia acido-sapida. Probabilmente si potrà bere ancora per anni, ma oggi pare veramente ad un suo apice.
–Chateau La Martinette, Clos Blanc 2015, AOC Côtes de Provence. Non lontano dallo Chateau Rasque, bianco nato da marne calcaree, con otto mesi di rovere da 500 litri. Un filo di ossidazione, però sotto c’è idrocarburo… però l’ossidazione… magari aspettiamo un attimo… niente, è andato. Seguono imprecazioni, mie, che non riporto. Campione non valutabile.
–Il Monticello, Poggio Paterno 2014. La mela c’è, ma in una pineta. C’è un’importante nota quasi di resina, che si ripropone al palato, anche del rosmarino. La bocca è intensa, una morbidezza glicerica quasi oleosa che combatte con l’acidità agrumata ancora sferzante. È un po’ come se dovesse ancora riuscire a comporre le sue due anime, ma guardate il millesimo, è un figlio del freddo, è nato centododici anni dopo “la pioggia nel pineto” di Dannunzio, esprime verde vigor rude, e va di fratta in fratta, ha due facce: vólti silvani.
–Tenuta la Ghiaia, Ithaa 2010, IGT Liguria di Levante. Qui il legno c’è, ma a rubare la scena è macerazione sulle bucce. Earl grey tea, quindi erbaceo e agrumato insieme, mela essiccata, o forse al forno, o forse tutte e due, erbe aromatiche seccate, più mandorle che nocciole, comunque c’è anche frutta secca. Non ti aspetteresti la freschezza, e invece è lì, bene. Ti potresti aspettare il tannico, e infatti c’è anche lui, a spingere la beva. E poi il sale, non un cenno, ma un’importante persistenza che dialoga con i ritorni retronasali molto precisi. Dieci anni. Silenzio.
Considerazioni finali: e niente, non abbiamo risolto i conflitti italo-francesi, non ha vinto nessuno e continuiamo con la nostra rivalità ché finché si beve va anche bene. Possiamo dire che il Vermentino ha il physique? Sì, ma questo lo immaginavamo, era un po’ tutto premeditato. Ora scrivo a la Revue du Vin de France e vediamo cosa ne pensano, magari ci mandano altri campioni, non si sa mai.
Ah, si, c’era un altro vino, però era fuori gara, hors Catégorie direbbero i cugini:
– Peyre Rose, Oro 2002, AOC Coteaux du Languedoc. Qui il Rolle è solo al 60%, coadiuvato com’è da un 35% di Roussanne, un 5% di Viognier e un saldo di altri vitigni non precisati. Niente legno in questo caso, ma un lungo affinamento in acciaio e cemento, nessuna filtrazione, nessun compromesso per un risultato con una letteratura già talmente ampia alle spalle da non richiedere mie ulteriori precisazioni. Solo mi spiace che non l’abbia mai assaggiato Cesare Pavese. Eppure sessantacinque anni prima di quella vendemmia, sembrava averlo fatto, peccato, forse sarebbe andata diversamente…
“Per le vigne distese la voce del sole
aspra e dolce susurra nel diafano incendio,
come l’aria tremasse. Trema l’erba d’intorno.
L’erba è giovane come la vampa del sole.”