Nella valle di Albana, nel Parco delle 5 Terre, Maria Beghi produce vino. Con grinta e tenacia
La Liguria è un ossimoro.
Magari non tutta, magari non sempre. Ma anche tacendo dell’entroterra per lo più montuoso o collinare, in numerosi luoghi della regione c’è un certo stridore tra quell’essere terra di mare per antonomasia e quell’avere, del mare, solo la vista, a volte solo la consapevolezza della sua presenza, quel “sapere che è lì” anche se non ci vai, anche se non lo guardi, anche se l’accesso è pericoloso o impossibile.
Ecco, la valle di Albana è un po’ questo. Ci si arriva da Campiglia, 380 m slm, si prende una stradina privata e si scende immersi nei fitti lecci che tutto nascondono e tutto rinfrescano fino a quando il loro diradarsi non permette di aprire lo sguardo verso gli azzurri. Si è arrivati alla Torre. Le vigne sono più giù. Google earth alla mano siamo a 204 m slm, fate voi i conti e immaginate quanto ripido e difficile sia arrivarci. Il mare c’è, si vede, lo si respira. Ma arrivarci è un’altra cosa, ci sarebbe ancora da scendere parecchio, e poi bastano un po’ di onde sugli scogli ed il rischio è alto. Resto lì, a bearmi del panorama, costituendo per un po’ un puntino umanoide sulle centinaia di foto che ogni santo giorno vengono scattate dai battelli che passano di lì guardando questo idillio e “le rosse”, una delle vene di roccia, ricca di ossido di ferro, che partono in alto e si tuffano nel mare poco più sotto.
L’altro puntino, cui sono accanto, è Maria Beghi, un altro ossimoro. Dici “proprietaria terriera” e pensi ad una persona che si gode le rendite dei suoi possedimenti, magari prendendo decisioni sulla gestione, certo, ma sostanzialmente rilassandosi. Ma questa terra è strana, chiama lavoro, grinta. Ecco, Maria Beghi, sigaro e jeep rustica purché perfettamente efficiente, sembra non farsi intimorire da nulla, non dai cinghiali, non dalle pendenze, non dalla manutenzione dei muretti a secco senza i quali la gravità avrebbe la meglio su tutto, neppure dal corso AIS che sta frequentando o dagli ampliamenti alla cantina attualmente in corso. E di certo, guardando questa terra da terra, non si immagina ci siano grandi rendite da pendenze del genere, piuttosto si sente forte il senso di responsabilità di chi questo paesaggio lo vuole mantenere, per sé, per chi lo conosce appena passando in barca e per le generazioni future. Ma per fare il vino questa rustica nobiltà non basta, ci vuole qualcuno che lo sappia fare.
Ci vuole un altro ossimoro. “Vieni a vedere i miei terreni”, qualche anno fa. E Walter de Battè è venuto. Ed ha accettato. Iniziando a prendersi cura delle bellissime vigne anziane, progettando i reimpianti e curando la vinificazione. Perché è un ossimoro? Perché Walter è la firma enologica più autorevole della Liguria di levante (e per chi è guarito dall’astemia guardando Mondovino, come me, quando c’è la “firma” dell’enologo c’è sempre il rischio di vini griffati un po’ tutti uguali), ma il suo stile, se così lo si può chiamare, è la ricerca costante dell’espressione del territorio, l’adesione fedele a ciò che il terreno può esprimere. E quando si parla di terreno si intende non solo il campo, il micro, il singolo appezzamento di terreno con le piante che magari già vi esistono, ma anche la perfetta consapevolezza di dove collocare la Liguria di levante, nel tempo e nello spazio, conoscendone tradizioni, relazioni ampelografiche e legami geografici con tutto il mediterraneo nord-occidentale, il macro, insomma.
A superare ogni ossimoro, comunque, ci pensa il vino. Tre etichette, due bianchi (entrambi con 60% di bosco ed il resto equamente diviso tra vermentino ed albarola) e un rosso. Il Cinque Terre DOC 2016 (l’unico del Comune della Spezia) profuma di erbe mediterranee, di spezie dolci e di agrumi, ha freschezza e calore che si bilanciano, ma ha un lungo finale in cui a prevalere è la sapidità e quel ritorno del rosmarino nella retronasale; decisamente ha ancora vita davanti. Il suo fratello maggiore, Alter Ego 2015, fuori denominazione, è frutto di una sorta di ripasso sulle fecce dell’anno successivo, col quale ha molto in comune per qualità olfattiva, ma con intensità e concentrazione decisamente superiori. C’è più frutto di polpa, le erbe aromatiche sembrano in infusione; al palato è già in equilibrio, con la giusta alcolicità per reggere l’impatto fresco-sapido davvero importante, anche nella lunga, splendida, persistenza. Il Rosso 2015 è da uve marselan. Si tratta di un incrocio tra grenache (di cui conserva maggiormente i caratteri tipici) e cabernet sauvignon. Di quest’ultimo si sente al naso una fresca nota erbacea, ma potrebbe anche essere il microclima più umido del vicino canale, chissà; il resto è frutta rossa, fiori secchi e una bella speziatura da pepe nero. Il sorso è giustamente tannico, molto sapido, di bella acidità, il tutto ben compensato dalla morbidezza. Grandissima beva, risultato del solo passaggio in acciaio. Chissà cosa arriverà dalla sosta in barriques (non nuove, ovviamente) che stanno facendo le annate successive. Lo sapremo solo a tempo debito, Maria fa uscire i vini solo quando sono pronti, senza ascoltare le sirene del mercato, quella è roba da marinai.