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Ormeasco o scherzetto? Un halloween alternativo, al sapore di vino

di Matteo Sara 31 Ottobre 2020

Le ultime annate dell’Ormeasco di Pornassio Superiore dell’azienda Guglierame in provincia di Imperia

Finalmente. Un sogno che si avvera. Finalmente un halloween come si deve. Voglio dire, non esattamente una festona piena di cocktail rosssangue col vapore sopra che piacciono a grandi e piccini, zucche decorate e milf vestite da streghe, i mostri e le paure ce li abbiamo intorno ovunque anche senza travestimenti, e poi di questi tempi va molto il coprifuoco, altro che feste. Quello che mi resta, ma sono anni che ci penso e solo adesso m’è riuscito, è uscire il 31 ottobre con un pezzo sul Dolcetto.

Ovviamente, essendo liguri, parliamo di Ormeasco più che di Dolcetto, ma ampelograficamente è praticamente la stessa cosa, cambia il colore del raspo e poco altro, geneticamente ci siamo, e poi è arrivato in Liguria settecento e rotti anni fa, proprio da Clavesana, una delle patrie del Dolcetto, quindi ci siamo, non mi toccate il giochino del titolo.
Lo scherzetto di cui sopra lo facciamo davvero. Lo facciamo a tutti quelli che “la Liguria è terra da bianco” (certo, per quello le eccezioni interessanti ci sono eccome, e poi basterebbe, da sola, Dolceacqua…), e lo facciamo anche ai cugini piemontesi, con cui competere in termini di vino rosso non è così semplice, ma per una volta si può tentare, alla fine è un po’ come fare a Davide e Golia.

Il nostro Davide, il campione che ho scelto, è uno dei miei Pornassio preferiti, quello dell’azienda Guglierame, anzi, per la precisione Eredi dell’ing. Nicola Guglierame, a mandare ad imperitura memoria l’azione non già del fondatore (per quello si deve risalire all’unità di Italia), ma di chi diede un importante impulso alla produzione di vino nel secondo dopoguerra. Oggi sono i fratelli Raffaele, Agostino e Elisa, con i primi due direttamente impegnati, a condurre l’azienda con sede all’interno del Castello di Pornassio.

I vigneti sono a breve distanza, circa 550m slm, su suolo arenaceo-marnoso, ben esposti come tutta l’alta Valle Arroscia. I vini aziendali sono tre, tutti rigorosamente ricadenti della DOC Ormeasco di Pornassio ottenuti dal solo ed unico vitigno coltivato: il rosato Sciac-Trà, e due rossi, uno in versione Superiore, con obbligo di invecchiamento di almeno dodici mesi e gradazione alcolica minima più alta. Sarebbe interessante dire della saporita beva dello Sciac-Trà 2019, costruito com’è non su piacionerie floreali ma su un solido agrumato e su piccoli frutti speziati; sarebbe anche carino soffermarsi sull’Ormeasco “base” assaggiato nell’annata 2015 che dopo un naso appena decadente comunque con frutta di polpa, note resinose ed un fumè di stampo ossidativo propone una bocca ancora fresca, appena tannica e ancora ben sapida e piacevole; sarebbe forse necessario, sempre dell’Ormeasco “base” raccontare la pomposità del 2018, letteralmente spazzato via su una pasta col tocco, per facilità di beva e goduriosità; sarebbe tutto facile, ma non lo voglio fare.

Ormeasco di Pornassio Superiore dell'azienda Guglierame

Ormeasco di Pornassio Superiore dell’azienda Guglierame

Renderò quindi conto soltanto degli assaggi (si fa per dire…) dell’Ormeasco di Pornassio Superiore, in una breve ma significativa verticale volta a superare qualsivoglia complesso di inferiorità verso omologhi piemontesi che comunque sarebbe bello, in futuro, sfidare a duello, direttamente.
2018: rosso rubino con qualcosa in più di un riflesso porpora, vino giovanile fin dal suo mostrarsi quindi. E giovanile lo è anche il corredo olfattivo, grandissima frutta, per lo più scura, la prugna la mora prevalgono sulla ciliegia, una nota erbacea, sembra edera, accompagna quella quasi resinosa e balsamica. La freschezza è di impatto, il tannino no, è carezzevole, si fa probabilmente più sentire nella sua componente saporifera, con un finale amaricante che sul cibo si esalta (testato su una fettuccina all’uovo con delicatissimo ragù di cinghiale ha dato ottime sensazioni). La valutazione complessiva è di un buon vino già adesso, ma che saprà certamente migliorare.

2016: spariti i riflessi porpora, attorno al manto rubino ora ci sono quelli granato. Il fruttato è più pacato, si fanno più accentuate le speziature, la china, e la nota erbacea prende il sopravvento, nei suoi accenti più autunnali, di mallo di noce, e torna la nota resinosa, scappa un “passeggiata nel bosco” cui rispondo “misto latifoglie e conifere”, e mica si scherzava. La freschezza all’assaggio c’è ancora, certo, inferiore al 2018, e soprattutto inferiore alla sapidità, che non cede un passo, resta il finale amaricante, meno spigoloso. È un vino compiuto, in ottima forma, che dal fratello più giovane sarà probabilmente superato in futuro, ora assolutamente no.

2013: rosso granato, vivo e luminoso (fino ad ora sembra di scorrere un manuale di sommelierie alla voce “esame visivo”). La frutta è in gelatina, piacevolissima, alla prugna si accostano, stranamente, anche piccoli frutti di bosco, l’erbaceo è di radici, è terroso, ha china, rabarbaro, thè nero, unisce il balsamico lievemente mentolato ad un tabacco in foglie, insomma, complessità indiscutibile. Dopo i necessari minuti a roteare il calice, inclinandolo opportunamente, arrivano senza indugio, tutta la freschezza e la sapidità che si potrebbe desiderare da un rosso di sette anni fa, un tannino setoso, un equilibrio completo, un finale solo lievemente amaricante. Una grande bottiglia, che sarebbe bello mettere alla cieca in mezzo a certi tagli del Medoc, con almeno una decina di anni di più alle spalle, magari. Ecco fatto lo scherzetto.

2011: bottiglia bordolese, prima del passaggio alla attuale borgognotta, calice più oscuro, è certamente granato, ma più denso. Gli aromi erbacei si fanno sentire di più, la speziatura anche, ancora il mallo di noce, la cipria, una nota fumè come nel base del 2015, tutto molto ombroso. La bocca è coerente, sapida, con un tannino più aggressivo, c’è forse il primo cenno lievemente allappante, aromi retronasali più incisivi. Chiama cibo di carattere più accondiscendente, su un sardo stagionato a latte crudo finisce per questionare troppo, meglio su un formaggio vaccino di media stagionatura dove dà il meglio di sé. Nobilmente decadentista.
Bilancio complessivo? Ovviamente estremamente positivo, vediamo se riesco a riassumerlo in pochissime parole, magari rubo un po’ a qualche slogan tedesco di qualche tempo fa… Guglierame: Das Ormeasco.

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Matteo Sara

Astemio per i primi 36 anni di vita. Bevendo acqua e succhi di frutta si lancia in proclami del tipo: “se iniziassi a bere vorrei diventare sommelier”. Un autunno, sulla via di Canelli, viene finalmente folgorato da Bacco, e decide di iniziarsi all’alcol. Trentotto mesi dopo il primo bicchiere, diventa effettivamente sommelier Ais. Prima tappa di uno studio matto e speranzosissimo con l’obiettivo di recuperare il tempo perduto, tutto. Proust is nothing.

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