A Fosdinovo una Doc interregionale, la Colli di Luni. E un’azienda famigliare che le fa onore
Dove finisce la Liguria? Facendola iniziare dai Balzi Rossi intendo, ovviamente. La geografia, quella politica, dice cose che tutti sanno: le cartine di Liguria e Toscana si incastrano grazie alle incursioni dei Comuni di Aulla e Fosdinovo. L’enografia, invece, dice altro. Parla di una Doc interregionale, la Colli di Luni, in cui le due regioni non si incastrano, semplicemente si fondono, si uniscono senza soluzione di continuità, prendendo un territorio a maggioranza ligure e un aspetto già toscano, le colline che si fanno morbide e la vicinanza del mare, il vitigno bianco di tutto il mediterraneo nord occidentale e quello a bacca nera più importante dell’Italia centrale. La Terra della Luna, insomma. Normale che ci si sentano a casa gli apuani, i pontremolesi e insieme i più ferventi ligustici.
Arrivare a Fosdinovo, in Toscana, è perfettamente naturale per chi parla di vino ligure. Arrivare a Fosdinovo e ammirarne, su tutto, l’imponente Castello, è altrettanto ovvio. Fermarsi ai suoi piedi, per entrare nelle antiche stalle, staccate dal corpo principale ma subito sotto l’ingresso, lo è ancor di più. È qui che ha sede Podere Lavandaro, della famiglia Taddei.
Le dimensioni dell’azienda sono, come dire, liguri. Poco più di ventimila bottiglie annue al momento, con l’arrivo in produzione di alcuni recenti impianti aumenterà un po’, ma “poco più di ventimila bottiglie annue” resterà comunque valido. Anche gli spazi quelli sono. Allora ecco soluzioni intelligenti per sfruttare i due livelli della cantina, un ambiente risicato per lo stoccaggio delle bottiglie per il poco tempo che il mercato concede, una conduzione famigliare. I 4 ettari di terreni sono sparsi per tutto il comune, appezzamenti piccoli, che vanno dai 200 m s.l.m. (pochi) ai 400 abbondanti (i più numerosi), in località Casalecchio, Gignola e, va da sé, Lavandaro; l’altitudine media aziendale è infatti una della più alte di tutto il comprensorio. E i vini lo trasmettono con chiarezza.
Più della metà della produzione confluisce nel Colli di Luni Vermentino. L’annata 2017 concede, al naso, note agrumate e finemente erbacee, tenute insieme dalla mela ben matura, in bocca è sapido, di medio corpo e lunghezza, con la dominante nota fresca che tiene bene nel finale amaricante. Mi accorgo, assaggiandolo, che se qualcuno mi chiedesse di capire il Colli di Luni Vermentino con una bottiglia sola, dopo aver fatto presente l’inopportunità di farlo e dopo aver ceduto alla voglia di sintesi dell’interessato, probabilmente sceglierei questo, così tipico, così identitario.
Niente rosato. Le circa 1500 bottiglie del Merlarosa sono irrimediabilmente finite. Ero curioso, amen, resterò tale fino alla prossima occasione, che cercherò presto.
Via coi rossi dunque. Alla sua seconda uscita, l’IGT Toscana Vermentino Nero 2017, da un impianto di cinque anni fa che ha soppiantato il sangiovese, tinge il calice di un rosso porpora da manuale, offre un mazzetto di rose rosse, e soprattutto frutta polposa, sia la pesca tabacchiera che la ciliegia, sembra di morsicarla, e girando un po’ il calice emerge anche un delicato erbaceo che non guasta; un lievissimo accenno di tannino, un buon sapore e una spiccata freschezza completano il quadro di un vino da solo acciaio, da stappare presto per godere della sua giovinezza, e che difficilmente resterà per un riassaggio al pasto successivo. Altro ruolo, nel portafoglio aziendale e sulla tavola, ha il Vignanera 2016, IGT Toscana ottenuto da sole uva Merla (Canaiolo per i foresti) con permanenza in legno di medie dimensioni. All’olfatto è autorevole, con un erbaceo finissimo che penso a quanti bolgheri potrebbe superare alla metà del prezzo, un impatto sul palato molto ricco, con tannini che spingono più sull’amaricante che sull’aggressione tattile, il tutto sostenuto dall’indiscutibile acidità che garantisce beva.
Chiudiamo con il Canizzo 2015, altro IGT Toscana, questa volta passito, da Vermentino praticamente in purezza. Affina in botti di varie dimensioni, e varie essenze (è una batteria presa da un’acetaia modenese). Non aspettatevi un’esplosione di zucchero: è dolce si, ma tra la nota ossidativa che lo avvicina ad un giovane Vin Santo e l’aziendale freschezza potrete godervi i classici aromi di frutta disidratata e secca senza avvertire il minimo cedimento alla stucchevolezza.