Mentre Kierkegaard scriveva in vino veritas, Leopardi ricorreva a un buon calice per vedere meglio. E Freud…
Tragico nella sua tormentata esistenza e nella sua filosofia, Kierkegaard è stato anche autore di una curiosa operetta che già nel titolo denota la sua perfetta attinenza al tema di nostra riflessione: “In vino veritas”.
Il testo, scritto nel 1845, descrive una riunione tra amici svoltasi in una zona boscosa in prossimità di Copenaghen e, tra un assaggio di tartufi e un sorso di Château Margaux, si banchetta e si disquisisce sull’amore. Kierkegaard consiglia che bisogna bere sino ai limiti dello “sragionamento”, ma senza mai naufragare nell’insensatezza.
Scopo del pamphlet del filosofo danese è quello di mostrare al lettore quella soglia che separa e congiunge due stati ben distinti tra loro: uno dominato dalla ragionevolezza e dal controllo del sé, l’altro totalmente libero di far sgorgare pensieri e parole al di là delle norme morali a cui siamo costretti.
Altro estimatore del noto “succo di ottobre” era nientemeno che il poeta-filosofo Giacomo Leopardi. Da una lettera datata 1826, Leopardi invitava il padre a esportare anche in Emilia i vini marchigiani che si sarebbero venduti meglio degli altri “fatturati e pessimi” reperibili a Bologna, assolutamente “ingrati al gusto e scomunicati da tutti i medici”. Agli occhi del poeta recanatese, il vino si mostra come foriero di un obnubilamento che è di grande aiuto e di formidabile stimolo all’immaginazione, alla creazione artistica e alla capacità di perseguire la realtà. Il vino ha la potenza salvifica del nettare degli dei e rende possibile uno sguardo che “non si rapporti più al mondo come un fuori, ma come al tutto”.
Cambiando secolo e atmosfera, la Vienna di inizio ‘900 ha portato a galla alcune delle personalità che più hanno segnato la vita culturale e filosofica del XX secolo. Un esempio su tutti fu il padre della psicanalisi, il dottor Sigmund Freud, il quale riuscì a convincere il collega Jung (allevato in una tradizione fanatico antialcolismo) a rinunciare all’astinenza al vino e a bere insieme a lui. Non è un segreto che, soprattutto nei momenti di aridità intuitiva, Freud ricorresse all’ausilio dell’amico Barolo o Marsala e, non molto tempo prima era stato convinto assertore delle proprietà benefiche della cocaina. Ne spedì anche alla futura moglie Martha “per darle forza e colorarle le guance”.
Con questo non si vuole affermare che Freud fosse incline all’eccesso del bere o dedito alle droghe. Anzi, il suo desiderio di limpidezza mentale esclude che l’esperienza giovanile con la cocaina fosse motivata da una volontà di annebbiamento, sempre che non si trattasse di una volontà inconscia e non portata alla superficie della psicanalisi che il dottor Freud doveva ancora inventare.